Una bella giornata d’inverno,

una domenica tiepida e soleggiata mi porta a prendere un caffè a Bologna in Piazza dei Celestini.

Mi sento osservato dall’alto, da un balcone che sovrasta la piazza.

C’è un’ombra di una figura di un piccolo, ma grande uomo, che suona il sassofono immerso nel verde di quel balcone.

È Lucio, il sassofonista irsuto, il gigante sotto le sembianze del nano,

Il Poeta dell’impercettibile,

con la sua poetica della leggerezza, che diventa profondità se scavi tra le parole.

La profondità di quel mare che è una costante nelle sue canzoni, come se facesse parte della sua vita, della sua ricerca esistenziale.

Cantami o Diva del Lucio Ulisse che nelle sue canzoni ci porta per mari e porti con la sottile ironia che lo contraddistingue, sempre alla ricerca di un rifugio esistenziale, di un porto dove arrivare, di un rifugio da decantare ai propri compagni di viaggio.

Un viaggio al tempo stesso fisico e metafisico, dal gabinetto dove dare il proprio sesso, al rifugio per salvare l’ambiente, altro tema ricorrente in molte sue canzoni.

Un Ulisse controcorrente, un cantautore dell’insostenibile, nascosto tra le pieghe della sua leggerezza.

Sono molte le canzoni profonde, da “L’anno che verrà” a “Quanto è profondo il mare”, alcune come “Anna e Marco” sono dei veri e propri racconti, o meglio dei film.

Se rifletto su come immaginare Lucio lo immagino in questo momento che sorride, mentre da dove è, zampilla dalla sua fontana sopra le nostre teste fischiettando un motivetto, lanciando i suoi suoni gutturali nell’aere per svegliarci dal nostro torpore.

Sono molte dicevo le canzoni profonde di Lucio, ma se parlassi di lui analizzandole storpierei il suo voler essere il nostro Ulisse, che vede cose inenarrabili ma che per farcele comprendere utilizza la leggerezza, per farle apparire a noi comprensibili e affrontabili.

In definitiva, lo voglio ricordare con Disperato Erotico Stomp.

In cui ci racconta la profondità, la vita, con la normalità, le depravazioni, l’ironia, le sue immagini, i suoi suoni gutturali matti, che ti entrano dentro e danno il brivido e l’impulso irrefrenabile di doverli canticchiare provando ad emularlo.

Ci manca Lucio Dalla e quella sua unica insostenibile leggerezza nel raccontarci la vita, Bologna e noi stessi.

Soprattutto ci mancano canzoni come Disperato erotico stomp, dove l’ironia è la misura della struggente ridicolezza del nostro essere e del nostro vivere quotidiano biricchino biriccó, dove il turpiloquio è una poesia sibilante e immensa che, come una nuvola, si fa strada nel cielo imperscrutabile della Bologna in cui non si perde neanche un bambino.

La sua leggerezza è sinonimo di una profondità che ci avvolge e ci travolge.

Pura poesia in cui ci rappresenta, scavalcando la censura dell’epoca, scene erotiche, la profondità della quotidianità e della bellezza dei reietti.

In fondo gli devo questi pensieri e parole, per tutte le volte che ho immaginato quella Berlino “un po’ triste” e “molto grande”, a come doveva essere quella alta amica, o quelle in cui rimasto inebetito e riflessivo davanti ai “problemi anche seri” di “una puttana ottimista e di sinistra”.

Mi sembrava quindi doveroso in un giorno qualunque, o forse no, ricordare Lucio.

Lo devo a tutti noi che pensiamo davvero come la vera “impresa eccezionale” sia “essere normale”.

Ci manchi molto nostro Ulisse.

Ciao Lucio, duvudubà!

Stefano Foglia